La vita richiede allenamento per ogni cosa e forse il teatro serve per questo: è una palestra dove mi educo e mi alleno perché – in fondo – il palcoscenico è vita.
Il teatro osserva, ascolta, agisce la realtà ma con la straordinaria possibilità di variarne le regole.
A teatro voglio essere toccato, sorpreso, colpito od emozionato, vivere un’esperienza e sentirmi parte, uscire “altro” da come sono entrato.
Se questo accade, allora ha senso.
Il tempo nel teatro è quantistico: si modifica, avanza, si soprappone, s’arresta, ritorna indietro. E’ la chiave d’accesso attraverso la quale il presente diventa il protagonista sciogliendo la convenzione sociale della scansione del tempo.
Lo spazio è modellabile, non solo attraverso le scenografie e le luci o l’influenza dei piani sonori, ma diventando “spazio sensoriale” disegnato dai corpi degli interpreti che ne condizionano l’esistenza e l’impressione.
Il teatro è in grado di rompere la schiavitù dell’identità, annientare l’identificazione univoca di ciò che pensiamo di essere o della limitazione di ciò che siamo nella vita di tutti i giorni.
Concetto molto evidente nello studio del personaggio, pretesto meraviglioso per attraversare il processo. Questo spostamento richiede un abbandono con la propria identificazione, rende liberi e ci insegna a giocare.
L’attore, entità al servizio del lavoro, per vivere sulla scena deve lasciare posto ad altro, deve permettersi di aprire un varco, creare uno spazio dentro di sé.